Andrea Palladino
ilmanifesto.it
Sembra avere un nome certo il relitto della nave mercantile avvistato sul fondo del Tirreno, a venti miglia nautiche (circa 38 chilometri) dal porto di Cetraro, in provincia di Cosenza. Per la Procura di Paola la probabilità che si tratti della Cunski - come anticipato venerdì da il manifesto - una nave da cargo uscita nel 1956 dai cantieri navali britannici, è estremamente alta.
Dalla prima analisi del filmato realizzato dal robot Rav emerge che la prua presenta un largo squarcio, con i lembi della lamiera rivolti verso l'esterno, segno di una probabile esplosione a bordo. «Di fianco alla nave - spiega il procuratore di Paola Bruno Giordano - sono visibili due fusti», da dove sono stati prelevati dei campioni, inviati ai laboratori di analisi.
Tutto fa dunque pensare che il relitto sia realmente la prima "nave a perdere", utilizzata per il trasporto - sola andata - di rifiuti tossici e radioattivi. L'ultimo proprietario del cargo risulta essere una società di armatori con sede a Saint Vincent, nelle Antille. Si tratta della Alzira Shipping Corporation, come risulta dagli archivi Starke-Schell Registers inglesi, una delle fonti più attendibili per ricostruire la storia di un vascello. Questa società acquistò la nave nel 1991 da un'altra compagnia, cambiando il nome da Cunski a Shahinaz. Dal registro la Cunski-Shahinaz risulta poi demolita ad Alang il 23 gennaio 1992.
I dati certi, almeno per ora, sono questi. L'identificazione definitiva e provata del relitto arriverà probabilmente nei prossimi giorni, quando saranno analizzate le tante immagini che il robot subacqueo sta ancora raccogliendo. Il passo successivo - quello più difficile - sarà quello di identificare il carico trasportato, il porto di provenienza e la società che organizzò il trasporto. La ricostruzione della catena delle responsabilità sarà il punto di partenza per iniziare a fare luce sulla stagione delle navi dei veleni.
Un mare di scorie
La Cunski - o meglio ancora, la Shahinaz - è solo una delle tante navi a perdere che a cavallo tra gli anni '80 e '90 sono state fatte affondare con carichi micidiali. Le associazioni ambientaliste - Legambiente, Greenpeace e Wwf - negli anni '90 avevano segnalato un elenco di navi sparite nel nulla. Dossier e studi consegnati alla commissione bicamerale sui rifiuti, che per diversi anni si è occupata della vicenda.
Particolarmente dettagliato era un elenco informale preparato da Greenpeace: sei navi, con relative coordinate del presunto affondamento. Si tratta della Four Star I, della Anni, la Comandante Rocio, della Euroriver, della Irini e della Marco Polo. Tutti vascelli cargo che oggi sarebbero sul fondale del Tirreno, carichi di scorie. In alcuni casi è già possibile riscontrare i dati forniti da Greenpeace con i registri navali. Il luogo di affondamento della Euroriver, ad esempio, corrisponde perfettamente con quanto venne dichiarato dagli armatori. Sarà, però, necessario verificare tutte le navi che risultano in qualche maniera coinvolte. È quello che chiede oggi la Procura di Paola e l'assessore regionale all'ambiente Greco.
Nessuna risposta è mai venuta dallo stato italiano, che ha in sostanza ignorato la questione fino ad oggi. Se alla regione Calabria sono bastati 70 mila euro e pochi giorni di ricerca per localizzare e filmare il Cunski, poco o nulla è stato fatto da parte del ministero dell'Ambiente o della marina mercantile. Nessuna spedizione, nessuna task force, nessun Rav mandato a verificare la presenza dei relitti. Solo oggi, dopo il clamore del ritrovamento, il ministro Prestigiacomo promette il supporto del governo per recuperare il Cunski, senza specificare se saranno cercati anche gli altri vascelli.
Il coinvolgimento dei governi
Il 3 agosto del 2004, dopo diverse interrogazioni e interpellanze, l'allora ministro ai rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi forniva a Montecitorio una sorta di versione ufficiale sull'intera vicenda. E sono parole pesanti: «È emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico d'armi». Un traffico che ha goduto, secondo Giovanardi, di protezioni istituzionali: «Numerosi elementi - continua il ministro - indicano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei, nonché di esponenti della criminalità organizzata e di personaggi spregiudicati, tra cui il noto Giorgio Comerio».
Le navi a perdere sono nulla più della punta di iceberg. Oltre alle complicità istituzionali e all'azione diretta della criminalità organizzata - la manovalanza per il "lavoro sporco" - ci sono ovviamente le aziende. Si chiamano stakeholders, sono i mediatori che possiedono la logistica, la conoscenza di campo, la rete di contatti. Un nome è già ampiamente noto. È la Jelly Wax, che organizzò gran parte dei viaggi delle navi verso paesi extraeuropei come il Libano e il Venezuela. Ma all'origine della filiera ci sono soprattutto le grandi industrie, i produttori delle scorie. «Ad alimentare il mercato illecito - scriveva la commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti il 25 ottobre del 2000 - sono anche le industrie a rilevanza nazionale ed internazionale, comprese aziende a rilevante partecipazione di capitale pubblico». Industrie che hanno utilizzato la rete semiclandestina delle navi a perdere per ottenere uno «smaltimento al minor costo, senza alcun controllo sulla destinazione finale del rifiuto».
ilmanifesto.it
Sembra avere un nome certo il relitto della nave mercantile avvistato sul fondo del Tirreno, a venti miglia nautiche (circa 38 chilometri) dal porto di Cetraro, in provincia di Cosenza. Per la Procura di Paola la probabilità che si tratti della Cunski - come anticipato venerdì da il manifesto - una nave da cargo uscita nel 1956 dai cantieri navali britannici, è estremamente alta.
Dalla prima analisi del filmato realizzato dal robot Rav emerge che la prua presenta un largo squarcio, con i lembi della lamiera rivolti verso l'esterno, segno di una probabile esplosione a bordo. «Di fianco alla nave - spiega il procuratore di Paola Bruno Giordano - sono visibili due fusti», da dove sono stati prelevati dei campioni, inviati ai laboratori di analisi.
Tutto fa dunque pensare che il relitto sia realmente la prima "nave a perdere", utilizzata per il trasporto - sola andata - di rifiuti tossici e radioattivi. L'ultimo proprietario del cargo risulta essere una società di armatori con sede a Saint Vincent, nelle Antille. Si tratta della Alzira Shipping Corporation, come risulta dagli archivi Starke-Schell Registers inglesi, una delle fonti più attendibili per ricostruire la storia di un vascello. Questa società acquistò la nave nel 1991 da un'altra compagnia, cambiando il nome da Cunski a Shahinaz. Dal registro la Cunski-Shahinaz risulta poi demolita ad Alang il 23 gennaio 1992.
I dati certi, almeno per ora, sono questi. L'identificazione definitiva e provata del relitto arriverà probabilmente nei prossimi giorni, quando saranno analizzate le tante immagini che il robot subacqueo sta ancora raccogliendo. Il passo successivo - quello più difficile - sarà quello di identificare il carico trasportato, il porto di provenienza e la società che organizzò il trasporto. La ricostruzione della catena delle responsabilità sarà il punto di partenza per iniziare a fare luce sulla stagione delle navi dei veleni.
Un mare di scorie
La Cunski - o meglio ancora, la Shahinaz - è solo una delle tante navi a perdere che a cavallo tra gli anni '80 e '90 sono state fatte affondare con carichi micidiali. Le associazioni ambientaliste - Legambiente, Greenpeace e Wwf - negli anni '90 avevano segnalato un elenco di navi sparite nel nulla. Dossier e studi consegnati alla commissione bicamerale sui rifiuti, che per diversi anni si è occupata della vicenda.
Particolarmente dettagliato era un elenco informale preparato da Greenpeace: sei navi, con relative coordinate del presunto affondamento. Si tratta della Four Star I, della Anni, la Comandante Rocio, della Euroriver, della Irini e della Marco Polo. Tutti vascelli cargo che oggi sarebbero sul fondale del Tirreno, carichi di scorie. In alcuni casi è già possibile riscontrare i dati forniti da Greenpeace con i registri navali. Il luogo di affondamento della Euroriver, ad esempio, corrisponde perfettamente con quanto venne dichiarato dagli armatori. Sarà, però, necessario verificare tutte le navi che risultano in qualche maniera coinvolte. È quello che chiede oggi la Procura di Paola e l'assessore regionale all'ambiente Greco.
Nessuna risposta è mai venuta dallo stato italiano, che ha in sostanza ignorato la questione fino ad oggi. Se alla regione Calabria sono bastati 70 mila euro e pochi giorni di ricerca per localizzare e filmare il Cunski, poco o nulla è stato fatto da parte del ministero dell'Ambiente o della marina mercantile. Nessuna spedizione, nessuna task force, nessun Rav mandato a verificare la presenza dei relitti. Solo oggi, dopo il clamore del ritrovamento, il ministro Prestigiacomo promette il supporto del governo per recuperare il Cunski, senza specificare se saranno cercati anche gli altri vascelli.
Il coinvolgimento dei governi
Il 3 agosto del 2004, dopo diverse interrogazioni e interpellanze, l'allora ministro ai rapporti con il Parlamento Carlo Giovanardi forniva a Montecitorio una sorta di versione ufficiale sull'intera vicenda. E sono parole pesanti: «È emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico d'armi». Un traffico che ha goduto, secondo Giovanardi, di protezioni istituzionali: «Numerosi elementi - continua il ministro - indicano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei, nonché di esponenti della criminalità organizzata e di personaggi spregiudicati, tra cui il noto Giorgio Comerio».
Le navi a perdere sono nulla più della punta di iceberg. Oltre alle complicità istituzionali e all'azione diretta della criminalità organizzata - la manovalanza per il "lavoro sporco" - ci sono ovviamente le aziende. Si chiamano stakeholders, sono i mediatori che possiedono la logistica, la conoscenza di campo, la rete di contatti. Un nome è già ampiamente noto. È la Jelly Wax, che organizzò gran parte dei viaggi delle navi verso paesi extraeuropei come il Libano e il Venezuela. Ma all'origine della filiera ci sono soprattutto le grandi industrie, i produttori delle scorie. «Ad alimentare il mercato illecito - scriveva la commissione parlamentare d'inchiesta sui rifiuti il 25 ottobre del 2000 - sono anche le industrie a rilevanza nazionale ed internazionale, comprese aziende a rilevante partecipazione di capitale pubblico». Industrie che hanno utilizzato la rete semiclandestina delle navi a perdere per ottenere uno «smaltimento al minor costo, senza alcun controllo sulla destinazione finale del rifiuto».