giovedì 19 marzo 2009

Crisi dei ricchi, via crucis dei poveri

AUTORI: Jorge MAJFUD

Tradutzioni dae Ruggero Fornoni

Le teorie dell’evoluzione dopo Darwin assumono una dinamica divergente. Due specie possono discendere da una comune; ogni tanto, le specie stesse possono scomparire in forma graduale o drastica, ma mai due specie finiscono con il confluire in una sola. Non esiste meticciato se non all’interno della stessa specie. Nel lungo periodo, una gallina e un’uomo sono parenti lontani, discendenti di un qualche rettile ed entrambi rappresentano una risposta positiva della vita nella lotta per la sopravvivenza.

Cioé, la diversità è la forma in cui la vita si espande e si adatta ai diversi ambienti e alle diverse condizioni. Diversità e vita sono sinonimi per la biosfera. I processi vitali tendono alla diversità ma allo stesso tempo sono espressione di una unità, la biosfera, Gaia, l’esuberanza della vita nella sua permanente lotta per sopravvivere in ambienti ostili al suo stesso miracolo.

Per la stessa ragione la diversità culturale è un requisito per la vita dell’umanità. Ovvero, e comunque potrebbe essere una ragione sufficiente, la diversità non si limita solo a evitarci la noia della monotonia ma, inoltre, è parte della nostra sopravvivenza vitale come umanità.

Nonostante ciò, siamo stati noi esseri umani la unica specie che ha sostituito la naturale e prudente sostituzione di specie con un artificiale e minaccioso sterminio, con il saccheggio industriale e con la contaminazione del consumismo. Coloro tra noi che sostengono un possibile ma non inevitabile “progresso della storia” basato sulla conoscenza e l’esercizio dell’eguale-libertà, possono vedere che l’umanità, tante volte posta in pericolo di estinzione da se stessa, ha ottenuto alcuni successi che le hanno permesso di sopravvivere e di convivere con la propria crescente forza muscolare. E nonostante ciò, non abbiamo aggiunto niente di buono al resto della natura. In molti aspetti, in questo naturale processo di prove ed errori, forse siamo andati indietro o i nostri errori sono diventati esponenzialmente più pericolosi.

Il consumismo è uno di questi errori. Questo appetito insaziabile ha poco o niente a che fare con il progresso verso una possibile e comunque improbabile era senza-fame, post-scarsità, piuttosto ha a che vedere con una più primitiva era della gola e dell’avidità. Non diciamo che ha a che fare con un istinto animale, perchè nemmeno i leoni monopolizzano la savana né praticano lo sterminio sistematico delle proprie vittime, e perchè perfino i maiali si saziano solo di tanto in tanto.

La cultura del consumismo ha mostrato i suoi limiti in vari aspetti. Primo, ha contraddetto la condizione prima segnalata, superando le diversità culturali, sostituendole con i suoi ninnoli universali o creando una pseudo diversità dove un operaio giapponese o una meccanica tedesca possono utilizzare per due giorni un oggetto di artigianato peruviano fatto in Cina o possono godere cinque giorni della più bella tendina veneziana importata da Taiwan prima che si rompano per l’uso eccessivo. Secondo, perchè ha anche minacciato l’equilibrio ecologico con le sue estrazioni illimitate e le sue restituzioni sotto forma di spazzatura immortale.

Esempi concreti possiamo osservarli attorno a noi. Potremmo dire che è una fortuna che un operaio possa apprezzare le comodità che prima erano riservate solo alle classi agiate, le classi improduttive, le classi consumatrici. Nonostante ciò, questo consumo –indotto dalla pressione culturale e ideologica- si è convertito molte volte nella finalità del lavoratore e in uno strumento dell’economia. Il che, a rigor di logica, significa che l’individuo-strumento si è convertito in un mezzo dell’economia in quanto individuo-consumatore.

In quasi tutti i paesi sviluppati o in via di questo “modello di sviluppo”, i mobili che invadono i mercati sono pensati per durare pochi anni. O pochi mesi. Sono carini, hanno un bell’aspetto come quasi tutto nella cultura del consumo, ma se li fissiamo a lungo si rigano, perdono una vite o sono squadrati. Ogni giorno di più risulta esotica la preocupazione della mia familia di carpentieri per migliorare il disegno di una sedia perchè durasse cent’anni. Dei nuovi mobili usa-e-getta non ci si preoccupa molto perchè sappiamo che sono costati poco e che, in due o tre anni ne compreremo degli altri nuovi, il che comporta maggior interesse e trasformazione nella decorazione delle nostre case e dei nostri uffici e soprattutto stimola l’economia mondiale. Secondo la teoria in corso, ciò che buttiamo qui aiuta lo sviluppo industriale in qualche paese povero. Per questo ci sentiamo buoni, perchè siamo consumatori.

Ma questi mobili, anche quelli più economici, hanno consumato alberi, hanno bruciato combustibile nel loro lungo viaggio dalla Cina o dalla Malesia. La logia del “butto dopo aver usato”, che è la cosa più ragionevole per una siringa di plastica, diventa una legge necessaria per stimolare l’economia e mantenere il PIL in perpetua crescita, con le sue rispettive crisi e fobie quando la caduta provoca una recessione del due per cento. Per uscire dalla crisi bisogna aumentare la droga. I soli Stati Uniti, per esempio, destinano milioni di dollari perchè i suoi abitanti ritornino a consumare ed a spendere, destinano milioni di dollari per uscire dalla disperazione della recessione in modo che così il mondo possa continuare a girare, consumare e buttare.

Ma questi rifiuti, pur economici che siano –il consumismo è basato su della mercanzia economica, usa-e-getta, che rende quasi impossibile il riciclaggio di prodotti durevoli- possiedono pezzi di legno, plastica, batterie, canne di ferro, viti, vetro e ancora plastica. Negli Stati Uniti tutto ciò e anche di più va nella spazzatura –anche in questo tempo chiamato per ragioni equivoche “di grande crisi” - mentre nei paesi poveri, i poveri vanno alla ricerca della stessa spazzatura. Alla lunga, chi finisce con il consumare tutta la spazzatura è la natura mentre l’umanità continua a sospendere i cambiamenti nel proprio stile di vita al fine di uscire dalla recessione e al fine di sostenere la crescita dell’economia.

Ma cosa significa “crescita economica”, cosa significa questo due o tre per cento che ossessionano tutto il mondo, da Nord a Sud da Est a Ovest?

Il mondo è convinto che si trova in una terribile crisi. Ma il mondo è sempre stato in crisi. Ora la crisi è definita come mondiale perché (1) avanza e colpisce l’economia dei più ricchi; (2) il semplificato paradigma dello sviluppo ha diffuso la propria isteria al resto del mondo, contribuendo a darle legittimità. Ma negli Stati Uniti le persone continuano ad innondare i negozi e i ristoranti e i loro tagli non implicano mai la fame, sebbene siano in una situazione di gravità in cui milioni di lavoratori si trovano senza lavoro. Nei nostri paesi periferici una crisi significa bambini per la strada a chiedere elemosina. Negli Stati Uniti vuol dire consumatori che consumano un po’ meno mentre aspettano il prossimo ticket del governo.

Per uscire da questa “crisi”, gli specialisti si strizzano il cervello e la soluzione risulta sempre la stessa: aumentare il consumo. Ironicamente, aumentare il consumo prestando alla gente comune il suo stesso denaro attraverso le grandi banche private che ricevono l’aiuto salvifico del governo. Non si tratta solo di salvare alcune banche, ma, soprattutto, di salvare una ideologia e una cultura che da sole non sopravviverebbero se non ricevessero frequenti iniezioni ad hoc: stimoli finanziari, guerre che promuovono l’industria e controllano la partecipazione popolare, droghe e diversioni che stimolano, tranquillizzano e anestetizzano in nome di un bene comune.

Usciremo veramente dalla crisi quando il mondo ricomincerà una crescita del cinque per cento attraverso lo stimolo del consumo nei paesi ricchi? Non staremo preparando la prossima crisi?, una crisi reale –umana ed ecologica- e non una crisi artificiale come quella che subiamo oggi? Quando ci renderemo conto che questa non è veramente una crisi ma solo un’avvertenza, ovvero una opportunità per cambiare le nostre abitudini?

Ogni giorno rappresenta una crisi perchè ogni giorno scegliamo un percorso. Ma ci sono crisi che sono una lunga via crucis e altre che sono critiche perchè, sia per gli oppressi che per gli oppressori comportano una doppia possibilità: la conferma di un sistema o il suo annichilimento. Finora la prima ha prevalso sul secondo per mancanza di alternative. Ma non bisogna mai sottostimare la storia. Nessuno avrebbe mai pensato ad una alternativa al feudalesimo medioevale o al sistema schiavista. O quasi nessuno. La storia degli ultimi millenni dimostra che gli utopici l’avevano previsto con una precisione esagerata. Ma, come ai giorni nostri, gli utopici hanno sempre goduto di una cattiva fama. Perchè sono la denigrazione e il discredito le forme che ogni sistema dominante ha sempre avuto per evitare la proliferazione di gente con troppa immaginazione.




Originale da: Crisis de los ricos, via crucis de los pobres

Articolo originale pubblicato nel febbraio 2009

L’autore

Jorge Majfud è autore associato di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=7209&lg=it

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